domenica 17 maggio 2009

Sull'ingombro ontologico degli ex nei due sessi


«Le storie iniziano, le storie finiscono». È una frase che uso spesso. Non la dico con tono rassegnato, né entusiasta. La dico come dato di fatto. Si chiamano storie, e in quanto tali devono prima o poi finire. Qualcuna dura un giorno solo come le farfalle, altre durano anni come una scritta sul muro, e altre ancora di più. L'auspicio è che tra tutte le nostre storie ce ne sia una che finisca con la nostra morte.
Così nella vita ci capita che un certo numero di storie finiscano, e dopo un po' ti domandi cosa fare di tutti quegli scatoloni. Qualcuno l'hai sigillato ermeticamente, e sai che non lo riaprirai più; qualcuno lo lasci soltanto socchiuso, sai che è lì e non si sa mai che un giorno... qualcun altro magari non riesci a chiuderlo, e ti sembra di non avere nemmeno la forza o il coraggio di nasconderlo in soffitta.


Dopo questa (splendida) introduzione, quello di cui volevo parlare riguarda la differenza con cui uomini e donne vivono l'ingombro di tutti i loro scatoloni. Questa differenza a mio avviso riflette le modalità profonde dei due sessi. Gli uomini sono dinamici, come i fiumi, e le donne sono statiche e cicliche, come il mare, verso cui tutti i fiumi scorrono. Gli uomini percorrono una strada, le donne abitano un luogo.
Un uomo in genere si porta appresso tutte le sue storie ammassate dentro il suo zaino; una donna invece le tiene ognuna in una stanza diversa della propria casa, stanze con le imposte chiuse e la luce spenta, in quanto ora ne abitano un'altra. (Ricordo, sono generalizzazioni spaventose, schematizzazioni schifosamente generali. Io sono tremendamente Chunk Up.)
Da questa considerazione, ogni altra che si può fare a riguardo discende di conseguenza.

venerdì 15 maggio 2009

Ancora sulla paura


Ci sono solamente due forze che ci spingono ad agire: una forza che ci avvicina a ciò che vogliamo, e una che ci allontana da ciò che non vogliamo. La prima è l'amore, e la seconda è la paura. Si può scegliere di percorrere una via per amore, o si può scegliere di non prenderla per paura. Non ci sono alternative.
E la ragione?, si può chiedere. La ragione non è una forza, tantomeno contrapposta all'amore (come troppo spesso si sente dire). La ragione è solo l'arbitro del tiro alla fune tra amore e paura, e ad essa spetta il compito di scegliere quale dei due è più forte, oppure quale dei due far vincere.
Chi sceglie di non percorrere una via sceglie per paura, chi invece sceglie di percorrere una via sceglie per amore. E se vogliamo che in noi domini l'amore piuttosto che la paura, dovremmo sempre scegliere di percorrere una qualche via, piuttosto di non percorrere un'altra.

Commento ad una frase di Carlos Castaneda:
A questo proposito mi sono imbattuto di recente in questa frase:
«Qualsiasi via è solo una via e non c'è nessun affronto nell'abbondonarla, se questo è ciò che il tuo cuore ti dice di fare. Esamina ogni via. Quindi poni a te stesso una domanda: Questa via ha un cuore? Se non lo ha non serve a niente».
Ora, io spero che il famoso scrittore non me ne voglia, se non altro per l'amore che nutro per la letteratura sudamericana: ma io penso che siano tutte minchiate.
È vero, non c'è nessun affronto ad abbandonare una via. È proprio questo il punto. Abbandonare una via è sempre una fuga, se non scegliamo di prendere al suo posto un'altra via migliore. L'unico affronto è quello verso noi stessi, dimostrandoci deboli e codardi.
Non esistono vie con un cuore e vie senza un cuore. Ci sono le vie e basta, e siamo noi a scegliere. Siamo come barchette in mezzo al mare, con un certo numero di rotte che possiamo prendere. Le rotte sono solo linee sulla mappa; sono solo acqua da cavalcare. Il cuore ce lo abbiamo noi, ed è questo a stabilire se una via serve a qualcosa o meno.
La domanda che ci si deve porre è piuttosto questa: «Ho il cuore di percorrere questa via?». Se non ce l'hai allora non prenderla. Va bene, non c'è niente di male. Ma non dare la colpa alla strada: hai scelto di abbandonarla solo ed unicamente per una tua paura.