venerdì 27 marzo 2009

Sulla ricerca della perfezione


Versione distillata (nel solito stile «Appunti»):

La ricerca della perfezione è uno strumento necessario per la ricerca del bene, da cui si ottiene la felicità (come già detto).
Il rischio di questo meccanismo sta nel bypassare il passaggio del bene. Confondere la ricerca della perfezione con la ricerca della felicità comporta l'intolleranza (ovvero la perdita della dolcezza), impedendo così di ottenere la felicità.
Per questo è assolutamente necessario, se si vuole essere davvero felici, comprendere che la felicità è il fine ultimo e la perfezione è un suo strumento.


Versione esaustiva (perché questa cosa è davvero importante):

Vorrei portare all'attenzione un vecchio post del buon Beppe. Leggetelo, per favore; è molto breve. Come al solito io ci metto sempre più di un anno per capire le cose intelligenti, e questo la dice lunga sulla mia intelligenza.
C'è un momento nella vita di alcune persone in cui queste si accorgono del potere delle parole, dei gesti; in cui capiscono che una cosa detta così è perfetta, fatta così è perfetta. Scoprono che c'è un modo perfetto di fare le cose, capiscono qual è e sanno come comportarsi di conseguenza. E siccome essere perfetti è meglio di essere buoni, ci si spinge alla perfezione. È naturale, è parte della natura umana. Chi l'ha vissuto sa esattamente di cosa parlo.
Chi viene eletto alla ricerca della perfezione irrigidisce la propria capacità di accettare gli errori. I passi sono tre.
  1. Il primo passo è di non saper più tollerare gli errori degli altri. Siccome noi ci facciamo un culo così per essere perfetti, pretendiamo che gli altri lo siano. Sembra strano, ma se ci si pensa non lo è. Poco importa se loro non hanno fatto il nostro percorso e devono ancora scoprire e capire molte cose; non importa neanche se a loro non interessa minimamente il raggiungimento del bene supremo: l'importante è che noi siamo perfetti in qualcosa, loro sbagliano e quindi non possiamo tollerare gli errori degli altri. Non possiamo circondarci di persone che sbagliano queste cretinate, che pure sbagliavamo anche noi magari solo qualche mese fa. Sono cretinate, ma non è importante dove o cosa hanno sbagliato, importa solamente che hanno sbagliato.
  2. Il passo successivo è di non saper più tollerare i propri errori. Se so padroneggiare la perfezione, non sono più tenuto a sbagliare. Ogni mio sbaglio è un doppio sbaglio, e il secondo è molto più grave del primo.
  3. Il passo finale è non saper tollerare gli errori della vita, vedendone chiaramente tutti gli aspetti imperfetti. Anche se consapevoli che la vita non è né perfetta né imperfetta, né buona né cattiva, né giusta né sbagliata.
Sopportare il peso di tutti questi errori rende inevitabilmente infelici, pur nella strada verso la felicità.
Il bene ha un lato buono e un lato cattivo. Sembra un paradosso perché il bene dovrebbe essere il lato buono; ma è così. Il lato buono del bene è che se tu pianti un semino buono, la pianta che ne deriva dà come frutto la felicità. Il lato cattivo (o meglio, ingannevole) è appunto che si rischa seriamente di confondere la perfezione con la felicità, e questo porta all'intolleranza che in fondo non è altro che la perdita della dolcezza. Tempo fa il mio problematico slogan era «L'esperienza è la tomba della dolcezza»; dico «problematico» perché, se è vero questo, allora cercare il bene per poter essere felici in realtà si dimostra un modo per perdere quella felicità che tanto si cerca. Questo era il mio problema: se il bene porta alla felicità ma l'inseguimento del bene no, come si fa ad essere felici (che è per me lo scopo della vita)?
Fortunatamente, questo impasse filosofico è soltanto apparente. Per spiegarmi userò una metafora: è come il pianoforte. Il pianoforte, contrariamente ad esempio alla chitarra, è uno strumento con cui è challenging iniziare a rapportarsi. Quando ho iniziato trovavo difficile la gestione indipendente delle dieci dita: ci voleva tecnica. Finché non padroneggi la tecnica, non puoi suonare la musica ma solo le note. Spero capiate la differenza. Ecco, la metafora è che suonare a puntino tutte le note è la perfezione, mentre suonare la musica, beh, quella è la felicità. All'inizio è facilissimo confondere le due cose, e da questo deriva il mio problema sulla tomba della dolcezza. Ma poi, quando sei padrone della tecnica, puoi usarla per suonare la musica e non per suonare tutte le note perfettamente. Detto in altre parole, per usare il bene al fine di essere felice devi saper padroneggiare il concetto di perfezione. Ma il ruolo della perfezione, per quanto mi riguarda, finisce qua.
Come il pianista che padroneggia la tecnica automaticamente, senza vederla come lo scopo dell'esecuzione ma come lo strumento per produrre la musica, così la persona che vuole essere felice deve imparare a padroneggiare la perfezione in modo del tutto naturale, capendo che è solo lo strumento per produrre la felicità.
Prego ognuno di voi di rifletterci attentamente.

lunedì 23 marzo 2009

Sulla saggezza


Quasi tutte le domande semplici hanno una risposta molto complessa; e quasi tutte le domande complesse hanno una risposta molto semplice.
La persona saggia è quella che sa trovare risposte semplici alle domande complesse, e risposte complesse alle domande semplici.

giovedì 19 marzo 2009

Pro bugie bianche


Gli unici valori assoluti sono il Bene e il Male. La verità è solo uno strumento per ottenere il bene. In quanto strumento, deve sottostare al fine del bene; non deve essere usato indiscriminatamente.
Naturalmente se si può evitare di dire bugie o di omettere la verità è meglio farlo. Ma dire la verità quando questa può fare del male (che non vuol dire risparmiare dolore a qualcuno, vuol dire proprio «male») è come usare un coltello per infilzare una persona e poi giustificarsi dicendo: «Beh, era un coltello, il suo scopo è tagliare».

lunedì 16 marzo 2009

Omaggio ad Aidi


«Ogni mia considerazione sulla felicità parte dall'ipotesi che la felicità e l'infelicità non stanno nelle cose che abbiamo, ma in come le vediamo. Le persone felici vedono le cose in modo profondamente e sostanzialmente diverso da quello delle persone infelici. [...]
«Per questi motivi penso che non puoi giudicare il comportamento delle persone infelici se hai l'ottica di una persona felice. Non serve a niente dire ad un infelice “guarda quant'è bello il mondo”. Un infelice è capace di guardare solo quello che non ha [...], e non c'è da sottovalutare che l'infelicità dà un conforto da cui è paradossalmente difficile separarsi».


[Per capirci di più: qui.]

lunedì 2 marzo 2009

Sul sacrificio


«Non darsi più, è darsi ancora. Significa dare il proprio sacrificio»
Marguerite Yourcenar, Fuochi


Lo scopo del sacrificio è ottenere attenzione dagli altri; è come dire: «Avete visto quanto sto male? Fate qualcosa per aiutarmi».
Chi reagisce al dolore con il sacrificio, tendenzialmente, ha un ego debole ed è bisognoso degli altri; chi reagisce con la compensazione, tendenzialmente, ha un ego forte ed è autonomo.

(Esempio: due persone vengono lasciate, una non esce più di casa e l'altra salta nel letto di chiunque respiri.)